Allievo del Pantona
(erede dei grandi pittori vigezzini e della pittura ottocentesca di corte, il
nonno era pittore a Torino, presso i
Savoia) egli ha percorso, sotto gli
insegnamenti del maestro, alcune importanti tappe per la sua futura carriera
artistica, studiando, in modo approfondito, i macchiaioli fiorentini, gli
impressionisti francesi, i divisionisti italiani e i pittori paesaggisti
ossolani.
Beltrametti – soprattutto a causa della posizione periferica in
cui è costretto a vivere (lontano cioè dalle grandi città e dai centri vitali
della cultura) – ha prediletto questi tipi di pittura, fino alla successiva
scoperta di nuovi sbocchi, in seguito a quella continua e appassionata ricerca
dei problemi dell’uomo e dei suoi valori. Il nostro ha finito così per
abbandonare i vecchi schemi e per convogliare le sue esperienze nella
esplorazione di un’espressività figurativa a tema sociale, riuscendoci appieno
con una pittura più connotativa, avvalorata dalla personalità forte e
spontanea.
Se quindi esaminiamo i suoi dipinti, si possono osservare piacevoli
nature morte di stile classico: cioè con il fondo neutro,le tonalità basse,
quiete e ben calibrate; alcuni paesaggi con reminiscenze macchiaiole, dove le
forme sono costruite con venature di colori forti e scuri e paiono rendere gli
animali stanchi e sfiniti: il tutto, però, presentato senza retorica e con un
profondo senso di partecipazione umana; altri, tipici del divisionismo alla Fornara, nei quali sono evidenti gli
accostamenti di linee divise da supporti neutri e le pennellate simili a
filamenti studiati e sofferti con fatica e pazienza; infine, qualche opera
possiede una prospettiva aerea, dove irrinunciabile pare la spazialità e dove
le foglie degli alberi, più che viste, si sentono.
Inoltre, molto suggestivi e palpitanti di
liricità appaiono quei quadri, nei quali l’autore filtra, sfruttando la propria
sensibilità, le immagini della natura, e i suoi paesaggi più che descritti
paiono vissuti in dolce simbiosi.
Ricordo di questo periodo: un bosco
“dantesco”, in cui si intravedono alcune case che diventano simboli di rifugio
nello sgomento della vita d’oggi; un filare di piccoli alberi, leggermente
piegati in avanti, che dà la sensazione di un corteo di uomini diretti al
patibolo: la tesi prende conferma anche dai due alberi diritti e maestosi posti
in primo piano, uno all’inizio e l’altro verso la fine della fila, che sembrano
fungere da spietati guardiani dei condannati.
Ci sono, però, tele in cui Mario Beltrametti ha aderito anche a
una ricerca più impegnata: in queste creazioni ricorre la tematica di una
vibrante polemica sociale, ma senza stridori contrastanti o indugi
naturalistici. In esse, con tonalità palpitanti e atmosfere aderenti, l’artista
si interroga, pieno di angosce, sul significato dell’esistenza e del proprio
essere nel mondo.
Diviene così il lucido testimone delle miserie, delle infamie,
della stupidità della guerra. Non ha bisogno di ricorrere all’invettiva;
bastano pochi simboli (e il simbolo è sempre segno di un divieto, di un tabù
sociale) per rivelare la perversione degli istinti, la cupa libidine di
violenza e di potere.
La presenza del tavolo dà la possibilità di un piano, del palco
su cui rappresentare la scena: l’anatra col collo spezzato, presumibilmente il
popolo, è “il paziente”; il capro espiatorio; la corda che la lega potrebbe
raffigurare “il patibolo”; Hitler,
“il carnefice”; il potere brutale e razzista che ieri come oggi (vedasi le
scritte Pinochet e Ku Klux Klan) imperversa in ogni parte
della terra; persino i fiori recisi del vaso appaiono come vittime di una
violenza ecologica, anche se non sacrificale. Il giornale, infine, che sembra
avvolgere il tutto, non potrebbe simboleggiare l’immagine metaforica di un
potere che può essere usato a sostegno, come a sfavore della causa umana?
Con segno incisivo e tagliente, Mario
Beltrametti denuncia la prevaricazione e l’autoritarismo politico, la
corruzione, lo sfruttamento, di ogni tempo e di ogni luogo, e rappresenta
quello stimolo che possa suscitare nel fruitore una reazione morale; e i
simboli non valgono solo per il loro significato archetipo, ma soprattutto per
quello che assumono nel contesto, come generatori, appunto, d’immagini.
Giuseppe Possa
